LOCARNO 1925 - 2025

LOCARNO
1925 - 2025

NELL’ATTESA DEI 100 ANNI DEL PATTO DI LOCARNO (5-16 OTTOBRE 1925)

NELL’ATTESA DEI 100 ANNI DEL PATTO DI LOCARNO
(5-16 OTTOBRE 1925)

Introduzione

Questo sito vuole essere uno strumento per promuovere i contenuti della pagina Facebook Locarno 1925-2025 e, quale complemento, un luogo virtuale dove pubblicare analisi e articoli più approfonditi sul Patto di Locarno e il particolare periodo storico fra il 1919 e il 1929.

Il fatto che maggiormente determinò l’ascesa di Locarno a centro di villeggiatura di rinomanza internazionale fu l’incontro dei capi di sette diversi Governi europei che qui firmarono il “Patto di Locarno”, che avrebbe dovuto garantire un sistema di sicurezza per l’Europa occidentale dopo gli orrori della Grande Guerra e il fragile Trattato di Versailles del 1919. Fu l’evento politico più importante a livello mondiale di quel periodo, e passò alla Storia con il nome di Pace di Locarno portando il nome della località in tutto il mondo. Poco dopo il termine della Conferenza lo sviluppo della regione riprese a pieno ritmo.

Nel corso del 2024, a titolo privato, aprivo la pagina LOCARNO 1925 – 2025. Non solo per cercare di capire la vita quotidiana a Locarno, e nel Locarnese, nel 1925, per contestualizzare la città e il Ticino nell’ambito internazionale, culturale, sociale, economico e politico degli Anni Venti e valorizzare la nostra memoria sul territorio. Ma pure per valutare l’importanza, la portata e le conseguenze del Patto di Locarno del 1925 a lungo termine.

Molti contributi sono pubblicati a puntate. Per avere una visione di insieme è dunque consigliato sfogliare la pagina per trovarli, oppure di fare ricerche mirate come ad esempio “Nell’attesa dei 100 anni del Patto di Locarno” o “Musiche dagli Anni Venti”.

Francesco Mismirigo

Biografia

Nato a Muralto nel 1958, storico, laureato all’Università di Ginevra nel 1984 in Storia contemporanea e cinema, giornalista RP. Dopo attività giornalistiche in Svizzera romanda e alla Croce Rossa Svizzera, e dopo aver sviluppato le Relazioni pubbliche per Ticino Turismo, egli ha diretto il servizio comunicazione, eventi e PR della FTIA prima di occupare fino al 2016 la carica di Delegato cantonale all’integrazione degli stranieri. Cura inoltre da numerosi anni pubblicazioni a carattere storico, culturale, turistico e ha collaborato a trasmissioni su Rete 1 della RSI.

Appassionato di viaggi, di geografia, di Storia, di geopolitica, di Medio Oriente, di differenze, di cinema e di comunicazione, oggi, diversamente occupato, può finalmente dare spazio al desiderio di scrivere altrimenti, di fare esperienze editoriali alternative e di raccontare il mondo che lo circonda con altri prismi di lettura.

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 04 febbraio 2025

Riflessioni sul fallimento della sicurezza collettiva e sulle sue ragioni

 

Di Georges-Henri Soutou, pubblicato in Cairn Info, 24 gennaio 2013

 

La “sicurezza collettiva” era un elemento essenziale di una risposta democratica e liberale alla sfida della Grande Guerra: la costruzione dei trattati del 1919-1920 rispondeva certamente agli interessi dei vincitori, ma voleva anche stabilire un modello internazionale per la periodo postbellico. Tutta questa struttura doveva basarsi fondamentalmente sulla democratizzazione liberale del Continente, corollario della sicurezza collettiva, come spiegò Benes in modo molto suggestivo davanti alla Camera dei Deputati ceca il 25 aprile 1933. C'è stata infatti una risposta democratica consapevole e volontaria, a partire da Wilson e Clemenceau, alle sfide poste dal parossismo di violenza e instabilità scatenato dalla Grande Guerra.

 

Poiché siamo all'Istituto Cattolico, ricordiamo che questo nuovo sistema internazionale ricevette un certo appoggio dalla Santa Sede: nel prolungamento dell'azione per la pace di Benedetto XV durante la guerra. Papa Pio XI incoraggiò discretamente Locarno e il riavvicinamento franco-tedesco (...)

(…) Ma il tentativo dei leader europei di stabilire un nuovo sistema internazionale fallì, e non solo perché la Germania rinunciò definitivamente alla democrazia, non solo a causa del fallimento dell'ambiente di sicurezza collettiva previsto e indispensabile (democrazia liberale e liberalismo economico), ma anche perché i dirigenti francesi (e britannici, a loro modo) e le loro opinioni pubbliche, profondamente segnate dalla Grande Guerra, portarono la sicurezza collettiva oltre il ragionevole e ne fecero un mito paralizzante che, di fatto, contribuì a rovinare il fronte della deterrenza. costituito nel 1935 contro il Reich, con il "fronte di Stresa" (Gran Bretagna, Francia, Italia) e il patto franco-sovietico.

 

L'eredità della guerra è complessa: genera certamente reazioni revisioniste tra i vinti, ma anche i semi di un nuovo sistema internazionale, che deve dare a tutti il ​​posto che gli spetta; Allo stesso tempo, genera un pacifismo di principio che rovinerà le possibilità di questo nuovo sistema. Qui possiamo vedere chiaramente che dobbiamo evitare qualsiasi spiegazione univoca. Inoltre, il sistema instaurato nel 1925 a Locarno, considerato l’apice della sicurezza collettiva, era caratterizzato da molteplici ambiguità giuridiche e da una contraddizione fondamentale: era allo stesso tempo qualcosa di nuovo (la sicurezza collettiva) e la resurrezione di qualcosa di vecchio, che risaliva al 1815 (se non addirittura ai Trattati di Westfalia del XVII s.): il Concerto Europeo. Ma queste due nozioni erano, come vedremo, contraddittorie... E non dimentichiamo che Locarno fu colpita da un'ambiguità fondamentale circa gli obiettivi: per Berlino si trattava di rivedere la Pace di Versailles con dolcezza, per Parigi di difenderla con intelligenza. Fondamentalmente, la sicurezza collettiva fallì perché non riuscì né a contenere la spinta revisionista dei vinti (in particolare il Reich, ma anche l'Ungheria) né a incanalarla in un'evoluzione accettabile per gli altri Paesi e compatibile con il mantenimento della pace. Ma questo dilemma era proprio il grande problema dell'epoca.

 

Promemoria: sicurezza collettiva

Il concetto di "sicurezza collettiva" è apparso alla fine del XIX , in reazione al "Concerto europeo delle grandi potenze" istituito dal 1815 (le piccole potenze erano sempre meno soddisfatte di un sistema che dava loro poca voce in capitolo), non più delle "nazionalità" allogeniche nei Paesi multietnici, come l'Austria o la Russia, che erano pilastri del Concerto europeo, e che lo usavano proprio per soffocare le istanze nazionali, in nome dell'"equilibrio" tra le potenze).

La sicurezza collettiva fu anche una reazione alle alleanze permanenti del tempo di pace, che portarono alla spirale dell'entrata in guerra nel 1914, attraverso un meccanismo apparentemente inesorabile che aveva molto segnato i contemporanei (si legga ad esempio Les Thibault , di Roger Martin del Gard). In particolare, l'alleanza franco-russa del 1891-1893 (un'alleanza segreta, automatica) aveva lasciato un ricordo molto brutto, anche tra i leader, anche se non potevano dirlo troppo pubblicamente a causa delle controversie degli anni Venti e Trenta sulle responsabilità francesi e russe nella guerra.

 

Si ritenne quindi che la sicurezza dovesse essere stabilita con il potenziale avversario, includendolo nel sistema diplomatico, non contro di esso, attraverso alleanze bilaterali che in qualche modo designassero il potenziale avversario. Questa filosofia del tutto nuova ispirò il presidente Wilson e la creazione nel 1919 della Società delle Nazioni, da lui auspicata fin dalla fine della guerra. Nella sua mente, tutti i Paesi erano chiamati a farne parte, compresa, alla fine, la Germania. Ma ben presto divenne evidente che la Società delle Nazioni non poteva essere efficace: si trattava di un forum internazionale e non di una vera e propria organizzazione per il mantenimento della pace. I francesi hanno cercato di rafforzare la Società delle Nazioni proponendo di consentirle di designare chiaramente un possibile aggressore con un voto a maggioranza (e non all'unanimità, il che è molto difficile da ottenere) e di darle il potere di prendere sanzioni reali, comprese quelle militari. Si trattava del "Protocollo di Ginevra" del 1924, che alla fine fallì a causa dell'opposizione della Gran Bretagna.

 

Ottobre 1925: Locarno e le sue ambiguità

Si comprese allora che la Società delle Nazioni sarebbe rimasta troppo debole e troppo astratta. Era necessario qualcosa di più specifico. Da qui gli accordi di Locarno dell'ottobre 1925, con i quali Francia, Germania e Belgio riconobbero i loro confini reciproci, con la garanzia di Londra e Roma che si sarebbero ribellate a chiunque dei tre Paesi avesse violato gli accordi. Ma gli accordi di Locarno corrispondevano soprattutto alla strategia di Londra (separare l'Europa orientale e quella occidentale dal punto di vista della sicurezza e assumere una posizione di arbitro tra Francia e Germania). In realtà Locarno riguardò solo i confini occidentali, tra Germania, Belgio e Francia, e non quelli con Polonia e Cecoslovacchia. D'altro canto, Londra e l'Italia garantivano certamente la Francia contro un attacco tedesco, ma anche il Reich contro un'invasione francese (sia nel caso di una seconda operazione della Ruhr, come nel 1923) o anche eventualmente, ecco la grande ambiguità degli accordi di Locarno, nel caso di un intervento francese a favore della Polonia attaccata dalla Germania.

 

È quindi necessario mettere in luce le contraddizioni interne di Locarno, legate ai problemi posti dalla nozione di “sicurezza collettiva”. In particolare la differenza di sicurezza tra Europa occidentale e orientale (la Germania non garantiva i propri confini a est e questi non erano soggetti a garanzia internazionale). Ciò ridusse seriamente la sicurezza nell'Europa orientale, perché vi era una potenziale contraddizione tra Locarno e le alleanze concluse dalla Francia con la Polonia nel 1922, con la Cecoslovacchia nel 1924, alleanze rinnovate nel 1925 nel quadro degli accordi di Locarno, perché Parigi era ben consapevole di questa contraddizione e aveva cercato di riequilibrare le cose.

 

Il mito della sicurezza collettiva

Ma una cosa domina tutto durante l'era di Locarno e anche anni dopo, fino al 1939: il dogma della sicurezza collettiva, il sistema giuridico del patto della Società delle Nazioni e gli accordi di Locarno, con le loro ambiguità e in particolare il problema permanente che pongono in gli impegni che la Francia può assumere nell'Europa orientale e nei rapporti con la Gran Bretagna. Non si capisce nulla se si perde di vista il peso schiacciante del mito della sicurezza collettiva per i responsabili e per l'opinione pubblica della Francia di allora. La sicurezza collettiva, che è multilaterale e deve comprendere il più possibile tutti i partner, compresi i potenziali avversari, sembra infatti essere l'unica via per evitare il ripetersi di una catastrofe come quella del 1914.

 

Le ambiguità legali di Locarno

Tuttavia, la sicurezza collettiva, così come applicata dagli accordi di Locarno, comporta un grande rischio di contraddizione legato al ruolo di arbitro della Gran Bretagna (che complica chiaramente la politica di sicurezza francese in seguito: infatti, se la Francia accorre in aiuto della Polonia attaccata dalla Germania, la Gran Bretagna può considerarsi l'aggressore e intervenire contro di essa).

 

Una questione collegata alla precedente e particolarmente complessa è quella dei rapporti tra la Società delle Nazioni e gli accordi di Locarno: il funzionamento di questi accordi è soggetto a discussione preventiva a Ginevra oppure no, con tutti i rischi di ritardi e incomprensioni? Cosa possiamo immaginare? La questione è stata oggetto di un dibattito al Quai d'Orsay mentre era in corso Locarno. Ma il dibattito si evolse rapidamente nella direzione del riconoscimento di una priorità della Società delle Nazioni rispetto a Locarno: questo era diventato un dogma indiscusso nel 1934-1935. Ma di conseguenza Locarno, dal punto di vista della Francia e dei suoi alleati a Est, ne risultò indebolita.

 

Si tratta di un problema strutturale della politica estera francese di questo periodo, è l'immenso problema della sicurezza collettiva, intesa in modo estremo, e del suo impatto straordinario, a causa del rifiuto retrospettivo delle alleanze anteriori al 1914, e in particolare di quelle automatismo dell'alleanza franco-russa, che, come scrisse Jacques Bainville dopo la guerra, «non si concluse nella gioia e nell'apoteosi».

 

 

Il revisionismo è scritto a Locarno

In questa rapida erosione delle posizioni giuridiche francesi - la cui importanza è stata, a mio avviso, considerevole fino al 1936 e alla rioccupazione della Renania da parte di Hitler (in effetti, la questione si pone allora in tutta la sua acutezza: la Francia può agire unilateralmente per far rispettare Locarno e costringere Hitler a riattraversare il Reno, visto che Londra non vuole muoversi?) – sarà necessario riflettere, tra l’altro, sul peso del revisionismo in Francia riguardo alle origini della prima guerra mondiale e alle sue conseguenze. La cattiva coscienza che si andava diffondendo in certi ambienti circa le condizioni per l'entrata in guerra nel 1914 non contribuì forse insidiosamente all'adozione di tesi britanniche (e tedesche) sui limiti che Locarno imponeva a un'eventuale azione unilaterale della Francia? E la cattiva coscienza collettiva riguardo ai trattati di Versailles e Saint-Germain contribuì all'indebolimento di Parigi nel marzo 1938 ( Anschluss ) e nel settembre (accordi di Monaco): dopotutto, gli austriaci e i Sudeti sono tedeschi! Abbiamo concordato di passare dalla concezione francese di una nazione "civile", basata sui diritti e sulla volontà dei cittadini, alla concezione etnica della nazione, basata sulla lingua e sulle origini etniche, rovinando così tutta una parte della politica estera francese sin dall'inizio. il XIX e nel periodo 1919-1920.

 

Va notato qui che il testo di Locarno stesso evitava la nozione di "status quo": il testo originale del Preambolo del Patto del Reno parlava di "garantire lo status quo ". Ma dopo i negoziati il ​​testo divenne: "garantire la pace nella zona che così spesso è stata teatro di conflitti europei". Ciò era indicativo della nuova mentalità: la pace era più importante della difesa dello status quo. E ricordiamo che l'articolo 19 del Patto della Società delle Nazioni consentiva la revisione dei trattati... D'altro canto, con Locarno e il rapporto Briand/Stresemann, si instaurò una dinamica di cui Briand era perfettamente consapevole: era necessario fare delle concessioni per sostenere Stresemann e consolidare la democrazia di Weimar. Questo è un altro aspetto del nesso tra sicurezza collettiva e democrazia che ho già evidenziato.

 

Fu così che nel 1928-1929 si decise di evacuare la Renania nel 1930, in cambio del Piano Young. Ma il vertice fu raggiunto a Thoiry il 17 settembre 1926: Stresemann propose, grazie alla ritrovata solidità finanziaria del Reich, un pagamento anticipato delle riparazioni in cambio dell'evacuazione immediata della Renania e della restituzione della Saar senza plebiscito. Allo stesso modo, la Germania concederebbe un prestito alla Polonia (in pieno collasso) in cambio di una modifica del confine tra Polonia e Germania. Briand diede il suo accordo di principio (né lui né Berthelot, nelle loro discussioni con i tedeschi, esclusero la possibilità di una revisione del confine tedesco-polacco, che molti riconobbero essere stato tracciato particolarmente male a Versailles) .

 

Briand era quindi pronto per una revisione importante, anche se Poincaré, presidente del Consiglio da luglio, avesse causato il fallimento di Thoiry. È comprensibile che perfino i tedeschi più moderati, sulla scia di Stresemann, credessero nella sua possibilità. La Francia non seppe scegliere: non rimase ferma sulle posizioni del Trattato e fece delle concessioni alla Germania, ma sempre con riluttanza; non scelse l'accordo totale con gli anglosassoni; né esplorò le possibilità (reali, almeno nel 1931) di un accordo bilaterale con la Germania sulle riparazioni, l'economia, la sicurezza, un accordo che avrebbe messo Londra e Washington di fronte alle loro responsabilità e alle loro contraddizioni. Fu questo il fallimento di Locarno, l'ultima possibilità di una revisione ragionevole, la cui necessità tutte le persone serie compresero, nonostante la riluttanza dell'opinione pubblica francese (non tutta, tra l'altro) e naturalmente dei Paesi alleati dell'Europa dell’Est – sono stati sprecati, in gran parte a causa delle divisioni tra gli occidentali. Se si accetta che la revisione fosse inevitabile, gli Alleati non sapevano come gestirla. Aggiungiamo qui, e ciò è essenziale per comprendere quanto seguì, che a Parigi il dogma della "sicurezza collettiva" venne sempre più sostituendo la valutazione oggettiva dell'equilibrio di potere e del ben noto interesse nazionale. Questo, a mio avviso, spiega ampiamente la perdita di orientamento subita dalla politica estera francese a partire dal 1930. Tanto più che la sicurezza collettiva includeva il potenziale avversario (e questa è anche la sua differenza essenziale con la classica politica di sicurezza basata su alleanze palesemente rivolte contro un potenziale avversario) e quindi portava, in modo quasi strutturale, a farle delle concessioni affinché non turba l'ordine europeo al quale era stato associato.

 

Il quadro generale fallisce

Gli ambienti locarnisti sapevano bene che tre cose andavano di pari passo: la democrazia, l'economia liberale (notiamo che tutta una serie di accordi per settore industriale su scala europea, in particolare per l'acciaio a partire dal 1926, formarono quello che si potrebbe chiamare una "Locarno economica") e la sicurezza collettiva, che dipendeva da un ambiente politico ed economico liberale.

 

Ma l'economia liberale decadde con la crisi del 1929: i diversi Paesi adottarono la strategia del "ciascuno per sé" e abbandonarono l'approccio più multilaterale che si era affermato negli anni Venti. Di conseguenza, a partire dall'inizio degli anni '30 la democrazia fallì o declinò nell'Europa centrale e orientale. Il quadro generale che sosteneva la sicurezza collettiva era compromesso.

 

Una delle ambiguità di Locarno rafforza la pressione per una revisione dei trattati: è anche una resurrezione del vecchio Concetto d'Europa

 

Ovviamente, all'epoca non si insistette molto su questo punto, ma Locarno fu fondamentalmente un accordo e un sistema di consultazione, esterno alla Società delle Nazioni, tra Francia, Gran Bretagna, Germania e Italia. Vale a dire, le grandi potenze del Concerto europeo di prima del 1914, meno l'Austria-Ungheria, che era scomparsa, e la Russia, che era fuori gioco. Possiamo quindi vedere da ciò un'ambiguità fondamentale: la sicurezza è ufficialmente praticata collettivamente – e l’uguaglianza tra tutti gli Stati, piccoli o grandi – ma, di fatto, siamo tornati a un sistema basato sui grandi capitali. Eppure Hitler dal 1933, e nonostante la retorica ipernazionalista del regime, avrebbe saputo usare molto bene questa ambiguità: quando arrivò al potere, il Reich godeva in realtà di una situazione internazionale, grazie a Stresemann, che era di gran lunga superiore a quella degli anni immediatamente successivi alla sconfitta del 1918.

 

Primo esempio: la propensione degli Alleati a prendere in considerazione una certa revisione dei trattati nell'ambito dei rapporti a quattro risultanti da Locarno fu dimostrata dall'episodio del Patto quadripartito del luglio 1933. Questo scaturì da un'iniziativa di Mussolini. Preoccupato per gli obiettivi di Hitler e desideroso di incoraggiare il revisionismo in Ungheria, propose che i quattro maggiori Paesi europei si accordassero per organizzare, se necessario, la revisione dei trattati, sulla base dell'articolo 19 del Patto della SDN che ne prevedeva il principio. Parigi seguì Mussolini, in parte perché il ministro degli Esteri Paul Boncour pensava di poter contare sull'Italia contro la Germania, e in parte perché lo stesso primo ministro Daladier non era ostile a una revisione moderata del Trattato per salvare la pace. Tuttavia, si tenne conto della reticenza dell'opinione pubblica (la Camera rifiuterà di ratificare il Patto, prima manifestazione di un irrigidimento anti-hitleriano che si farà sentire nel 1934-1935) e degli alleati a Est: alla fine il patto fu firmato il 15 luglio 1935, ma molto annacquato.

 

Tuttavia, il risultato più evidente fu quello di intronizzare la Germania di Hitler nel Concerto degli Stati Europei ricostituito a Locarno ma così profondamente pervertito, e di allarmare la Polonia e la Piccola Intesa: il sistema francese di alleanze si trovò profondamente indebolito e il 26 gennaio 1934 Varsavia concluse un patto di non aggressione con il Reich. Berlino aveva riportato una grande vittoria e stava iniziando a sostituire la sicurezza collettiva con una rete di accordi bilaterali incentrati sul Reich. Tanto più che quest'ultimo aveva abbandonato la conferenza sul disarmo e la Società delle Nazioni nell'ottobre del 1933. Tutte le basi della sicurezza in Europa (la sicurezza collettiva e le sue istituzioni, il Concerto delle Grandi Potenze, il sistema francese di alleanze) erano ormai compromesse o sovvertite, e ci saremmo mossi rapidamente da una prospettiva di revisione controllata ad una molto più ampia e potente.

 

Monaco come culmine delle ambiguità di Locarno e del ritorno a un Consiglio europeo perverso, sotto il peso del mito della sicurezza collettiva e della cattiva coscienza pacifista, che porta all'accettazione del revisionismo.

La Conferenza di Monaco del settembre del 1938 si inserì pienamente nel movimento franco-britannico di revisione costante perseguito fin dal 1924, nel contesto della sicurezza collettiva. Il 29, a Monaco, si incontrarono i leader tedesco, italiano, francese e britannico, senza i cechi. Da notare che questa è la configurazione del Patto quadripartito del 1933: questa conferenza è una caricatura, una perversione del Concerto europeo ma, al momento, appare nella continuità di quanto era stato preparato fin dal 1930 e, nella mente delle persone, se non ovviamente nella realtà, sembra prolungare la sicurezza collettiva. Fu ben accolto, almeno all'epoca, anche dall'opinione pubblica britannica e francese. Tuttavia, le decisioni della conferenza furono pessime: la Cecoslovacchia perse immediatamente i Sudeti, che erano stati ampiamente demarcati, senza un plebiscito, e nelle settimane successive la Polonia e l'Ungheria si impossessarono della loro parte. I francesi e gli inglesi, invece, credono, il che è vero, di aver impedito a Hitler di impadronirsi dell'intera Cecoslovacchia senza guerra, che era il suo programma iniziale (e si sarebbe sempre pentito di non averlo fatto). Tuttavia, la garanzia internazionale promessa a Praga non verrà mai ratificata da Berlino. Ma possiamo vedere a cosa hanno portato i concetti di sicurezza collettiva e di revisione negoziata.

 

È chiaro, infatti, anche se raramente si è prestata attenzione a questo punto, che è questa la posta in gioco, e che i responsabili di allora vedevano chiaramente la loro politica del 1938 nella continuità di quanto avevamo iniziato a fare in precedenza. . Nelle sue memorie, Paul Reynaud (allora ministro delle Finanze) racconta che al suo ritorno da Monaco Daladier gli disse: "Questa è la mia politica. Questo è il patto quadripartitico.” Daladier continuò per un po' su questa strada: pensava ancora che fosse possibile risolvere gli altri problemi europei allo stesso modo della conferenza di Monaco, che per un certo periodo fu intesa a Parigi come il primo di una serie di incontri che avrebbero permesso le maggiori potenze per risolvere progressivamente i problemi, tra cui le questioni territoriali, economiche e di disarmo. Il 4 ottobre 1938 dichiarò alla Camera: "Preserveremo la pace solo se finalmente creeremo le basi per una soluzione globale.”

 

Georges Bonnet, all'epoca ministro degli Esteri molto controverso, non disse altro: "Da quando nel 1936, con l'occupazione della Renania, Hitler aveva stracciato gli accordi di Locarno, i governi francese e inglese avevano cercato di nuovo di far accettare alla Germania un sistema di sicurezza collettiva, per garantire che non potesse più rimanere una forza isolata e indisciplinata e che potesse partecipare al concerto europeo.”

 

Conclusione

È chiaro che la sicurezza collettiva, in questo contesto, era diventata una copertura, un modo per razionalizzare il declino dell'influenza politica e della potenza militare della Francia. Ma fu anche il culmine ultimo delle ambiguità di Locarno. I contemporanei erano consapevoli del fallimento della sicurezza collettiva instaurata nel quadro di Locarno (quando non era basata, o non era più basata, su valori comuni) e del pericolo di un ritorno al concerto europeo delle grandi potenze.

Lo hanno detto molto chiaramente i padri dell'Europa dopo il 1945. Robert Schuman ha sempre sottolineato di aver preso una decisione fondamentale: andare oltre la politica tradizionale del Concerto europeo, la semplice collaborazione tra le potenze, che aveva portato solo ad alleanze antagoniste e grandi guerre europee. Per lui si trattava di una reazione profonda: era assolutamente necessario evitare il riaccendersi di vecchie rivalità, che il Concerto europeo non aveva impedito, e, per questo, costruire un'Europa integrata. Esiste quindi un legame diretto tra il periodo tra le due guerre e la costruzione dell'Europa dopo il 1945, attraverso le lezioni apprese dagli errori commessi tra il 1919 e il 1939.

 

 

 

 

 

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 28  dicembre 2024

Vita quotidiana a Locarno -
Il Natale

Il Natale nel 1924 a Locarno, come in tutto il Ticino, aveva poco o nulla a che vedere con quello del 2024. Manipolato e promosso unicamente in chiave commerciale e consumistica già a partire da settembre, a scapito dei valori prettamente spirituali legati a questa solennità.

 
La centralità rappresentata dal Natale nel vissuto religioso e in quello popolare si rifletteva ancora in numerose usanze che si perdono tra le pieghe del tempo. Dicembre era allora chiamato més dal Bambín o ancora més dala fèsta, il mese della festa per antonomasia.
Dicembre era il mese dell'attesa, delle aspettative, dei pronostici in campo agricolo. Accanto ai contenuti religiosi era la vera grande festa della famiglia; gli emigranti stagionali ritornavano a casa dopo quasi un anno di assenza, portando con sé i loro guadagni: la ricomposizione del nucleo familiare costituiva, soprattutto per le donne, un fattore di tranquillità e di sicurezza, non solo economica. E molti venivano concepiti fra dicembre e gennaio...
 
L'ultimo mese dell'anno apriva una porta su altre dimensioni, legate all'andamento delle stagioni: Natál al suu, carnevaa al fögh, Natál sul balcón, Pasqua davanti al carbón. Svariate credenze testimoniano della valenza quasi prodigiosa di questa festa: pare che fosse buona cosa indossare, per Natale, un capo di vestito nuovo per scongiurare la mala sorte. Durante la veglia di Natale c'era chi portava i pargoli avvolti in fasce all'aperto e per alcuni istanti posati sulla neve, nella convinzione che ciò li avrebbe aiutati a rinvigorirsi e dunque a scampare a lungo. Numerose usanze popolari erano spesso fortemente intrise di simbolismo. In particolare la sera della vigilia veniva vissuta con particolare intensità.
 
I regali andavano soprattutto ai bambini (anticamente erano i Re Magi a portare i doni) i quali, prima di coricarsi, esponevano sul davanzale un piatto in cui il Bambín Gesù avrebbe lasciato noci, nocciole, un'arancia, un mandarino, qualche fico secco, un grappolo di uva sultanina, un bambolotto di zucchero. La stessa tradizione c'era la sera del 5 dicembre. Nell'attesa di San Nicolao, che portava spagnolette e mandarini, si metteva davanti alla porta un piatto con del sale per l'asinello.
 
Negli anni 20 soprattutto nelle famiglie borghesi e benestanti di Locarno i bimbi ricevevano giocattoli in legno, orsetti in peluche, matite colorate, bambole di stoffa e gesso, puzzle, modellini di auto. In città i grandi magazzini Milliet & Werner, la futura Innovazione, offrivano il meglio per Natale. Nelle famiglie più semplici invece a volte anche solo un mandarino e delle spagnolette, allora delle rarità, erano un vero raggio di sole.
 
I regali li si lasciavano sotto l'albero decorato, una tradizione nordica ormai diffusa. Che però non soppiantava il presepe. Nelle case l'addobbo natalizio iniziava generalmente il 24. Nei commerci difficilmente prima del 6 dicembre. Allora l'attesa era veramente tale. E la magia pure. Che iniziava subito dopo il rientro dalla Messa di mezzanotte. Un importante momento di socializzazione per tutta la comunità.
 
Per il pranzo di Natale si prediligeva un pollo o una gallina, bolliti e poi ripieni. Purè e verdure lesse, ravioli in brodo e il tutto con un po' di frutta candita. Seguiva una torta di pane. Il tutto rigorosamente cucinato in casa. O un panettone del tipo rustico. Mandarini e chili di spagnolette. Dopo il pranzo era d'obbligo la visita ai parenti.
 
Il Natale richiedeva pure una preparazione e un raccoglimento particolari che in molte località si realizzavano nella Novena: una serie di nove funzioni religiose, annunciate da un brioso scampanio. Ancor oggi in alcuni villaggi si suonano le campane secondo modalità diverse. A Morcote l'annuncio è affidato ad alcuni volontari, che si riuniscono all'interno del campanile della chiesa di S. Maria Maggiore.
 
Fonte: ArgomenTI, 20.12.11

 

 

 

 

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 1 0  dicembre 2024

Ticino irredente

Gli anni precedenti il 1914 dimostrarono quanto fossero fragili le fondamenta dell’economia ticinese. Il Cantone non riuscì ad uscire dal suo isolamento e lo sviluppo industriale fu bloccato da crisi che atrofizzarono settori quali la cioccolata, i tabacchi, la seta, il granito, le banche, e stroncarono l’ottimismo e l’attivismo che caratterizzarono i primi anni del secolo. Si ritornò a privilegiare l’agricoltura, anch’essa però in rovina, perché sembrava non produrre altro che povertà ed emigrazione.

Nel 1924 il Cantone avviò la politica delle cosiddette “Rivendicazioni ticinesi”, chiedendo a Berna l’abolizione di tariffe ferroviarie discriminatici, compensi per le concessioni idroelettriche, sovvenzioni per le bonifiche, aiuti per le strade, sussidi scolastici e contributi per la difesa dell’identità ticinese minacciata da un’invadente presenza tedescofona, ma soprattutto pericolante per la fragilità della sua economia. Dopo il 1919 il Ticino visse dunque di riflesso nazionalismi, rivoluzione bolscevica e dittatura fascista.

Nonostante una sentimentale fiducia per tutto ciò che era civiltà italiana, il Ticino rifiutò le soluzioni estreme, respinse l’irredentismo e il fascismo che, come la Cisalpina nel 1797, avrebbero travolto le autonomie locali e i singoli poteri. Berna osservò comunque con apprensione le richieste di maggiori contatti con l’Italia e, per motivi elettorali, anche liberali e conservatori militarono per una maggiore elvetizzazione del Ticino, dove vi era però esigenza di contatti economici con l’Italia e dove spesso non esisteva distinzione fra filofascismo, irredentismo e italianità. Il Ticino subì le conseguenze di essere stretto fra gli interessi di Berna di non promuovere l’antifascismo per evitare difficoltà con l’estero e il rafforzarsi della sinistra, e il sostegno del Consigliere federale ticinese Giuseppe Motta (1871-1940) all’imperialismo italiano.

Nessuna apertura economica verso l’Italia fu ritenuta possibile e il progetto di “Ticino zona franca” fu condannato per le sue implicazioni politiche. Malgrado la realizzazione di alcune rivendicazioni il Cantone continuò a soffrire della sua posizione volutamente isolata. I difensori dell’italianità e il loro settimanale “L’Adula” si spostarono allora verso il fascismo e le tesi irredentiste. La questione dell’italianità si velò così di un marchio di ambiguità. Il Ticino si allontanò allora da ogni possibilità di contatto con l’Italia e si favorì la politica che prevedeva la soluzione della questione ticinese attraverso un più attivo avvicinamento alla Svizzera interna, e la fedeltà all’ideale repubblicana ancorato nella Costituzione federale, grazie pure agli elvetisti, con in prima linea l’avvocato Brenno Bertoni (1860-1945).

Nel suo contributo “Lo sviluppo economico del Ticino: due secoli di critiche (1783-1964)” pubblicato nel 2019, il professore e ex Direttore della Scuola universitaria professionale della Svizzera Italiana (SUPSI) Angelo Rossi scrive: “L’economista Carlo Kuster (1880-1968), per più di tre decenni segretario della Camera di commercio ticinese, fu anche uno dei più acuti analisti e commentatori dello sviluppo economico del Cantone tra le due guerre mondiali. Nella sua opera “Ticino, zona franca italiana?” (1937) si oppose alla proposta degli irredentisti di integrare l’economia ticinese nello spazio economico italiano. I suoi argomenti devono aver convinto le autorità perché, complice naturalmente l’esito della seconda guerra mondiale, la proposta in questione fu rapidamente abbandonata. La critica di Kuster alla proposta degli irredentisti si articolava in tre punti. Dapprima, egli analizzava la situazione dell’economia delle terre a meridione delle Alpi prima della creazione della Confederazione svizzera, arrivando alla conclusione che anche quando il Ticino era praticamente integrato nel mercato dell’Italia del nord la sua economia non aveva tratto molti vantaggi da questa situazione. Successivamente, si soffermava sulla problematica dei costi e benefici per l’economia ticinese a seguito dell’integrazione nel mercato elvetico: per Kuster il bilancio andava valutato positivamente, in considerazione del fatto che il Ticino, grazie anche all’appoggio della Confederazione, aveva potuto realizzare la linea ferroviaria del San Gottardo. Infine, il segretario della Camera di commercio veniva tuttavia a relativizzare tali vantaggi, in quanto le soprattasse di montagna, insieme ad altri fattori, mitigavano nella realtà le potenzialità dello sviluppo economico del Cantone.”

“L’Adula” fu un periodico di cultura italiana e irredentista pubblicato in Ticino dal 4 luglio 1912 al 3 agosto 1935, fondato e diretto da Teresina Bontempi. Il nome della testata si riferisce al monte omonimo che separa la Svizzera italiana dalla Svizzera tedesca. Promotore del periodico fu il glottologo Carlo Salvioni. Dapprima il periodico condusse una battaglia per affermare l’italianità storica, culturale e linguistica delle terre ticinesi contro le tendenze e influenze istituzionali dei cantoni di lingua tedesca. Sulle sue pagine scrissero lo storico Eligio Pometta, il linguista Carlo Salvioni e gli scrittori Francesco Chiesa, Giuseppe Prezzolini e Giovanni Papini. successivamente, verso il 1920, i toni del giornale si acuirono verso simpatie irredentiste e infine filofasciste, e furono accusati di estremismo e propaganda irredentistica e perciò venne più volte sospeso. Nel 1935 le autorità federali chiusero il giornale e la direttrice fu condannata con l’accusa di irredentismo ad alcuni mesi di prigione che scontò nel penitenziario di Lugano.

 
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5 dicembre 2024

Per una Storia locale meno elogiosa

In Ticino, in particolare alla RSI ma pure su altri media e in molte pubblicazioni locali, mi sembra che oggi si preferisca proporre una Storia che elogia la nostra terra e certi nostri personaggi. Una Storia a volte un po' edulcorata e che coltiva volentieri un certo orgoglio nazionalistico. Col rischio di deformare invece di informare. Raramente vediamo una Storia locale che analizza anche con spirito critico, o che osa rimette in questione o interpretare il nostro passato alla luce di nuovi elementi.
 
Ad esempio razzismo e colonialismo, come lo comprova il nuovo podcast "Nos esclaves" della sempre ottima Télévision Suisse romande, fanno parte del nostro passato. Forse non di quello della Svizzera ufficiale, ma di certo quello di molte persone e famiglie emigrate oltre mare, per lavorare o per gestire delle tenute e delle piantagioni dove lavoravano pure degli schiavi. Anche se nel 1864 il Consiglio federale pensava che la Svizzera poteva sostenere la schiavitù all'estero se questo serviva al profitto.
 
Pure in Ticino, come nel resto della Svizzera, ci sono state famiglie, come i Solari in Algeria o i Bertoni in Paraguay, che hanno approfittato del regime coloniale. E pure molti nostri emigranti in Australia o in America nell'800 hanno vissuto e lavorato in contesti di razzismo e di colonialismo. Se ci limitiamo a leggere le loro storie personali solo attraverso le loro lettere vedremo unicamente una parte della loro vita laggiù. Forse la più angelica. Per ora è quanto ancora prevale maggiormente. Quando tornavano molti di loro facevano nascere i vuoti di memoria: eravamo i primi a costruirci una storia falsa, a nascondere le condizioni di miseria e di povertà affinché i figli non sapessero. E oggi c’è chi continua a coltivare l’oblio.
 
Ma le loro mentalità e i loro comportamenti nei confronti dei popoli indigeni quasi sicuramente riflettevano quelle di altri migranti di allora, cow boys o ricercatori d'oro. Parliamone finalmente. Come vedevano e vivevano il colonialismo e il razzismo nel e col quale operavano?
 
Conoscere la Storia per capire il passato, ma pure il presente. Spiegare e mostrare il passato senza giudicarlo o trasformarlo con i nostri occhi contemporanei grazie anche alla tecnologia. Conoscere non significa accusare. E non ha pure nessun senso togliere statue o nomi di vie di personaggi dal passato poco virtuoso. Occorre spiegare le loro azioni, contestualizzarle, non cancellare la loro esistenza e il loro operato. Come occorre ricordare quegli svizzeri che hanno partecipato all'eliminazione della schiavitù. Occorre farlo anche per rispetto per tutti quei cittadini svizzeri di origine africana.
 
Per ritornare alla nostra regione, Cantone dell'iperbole pure per quanto riguarda le pubblicazioni sulla sua Storia, soprattutto dalla fine dell'800 il suo passato è stato studiato in modo relativamente approfondito, in particolare la Storia locale. Spesso pure in funzione del contesto del momento: il patriottismo elvetico in costruzione alla fine dell'800, l'irredentismo o l'antifascismo nei primi decenni del 900, la difesa spirituale durante la guerra, la fine delle certezze e la rimessa in discussione nella seconda metà del 900.
 
Una Storia a volte pesante da comunicare e diffondere  al grande pubblico. Che spesso ignora o resta ancorato a preconcetti o pregiudizi che risalgono alle nozioni del periodo scolastico. Negli ultimi decenni però la radio e la televisione hanno contribuito con prodotti di qualità alla divulgazione della Storia. Mantenendo serietà, rigore storico e spirito critico. A livello internazionale basti pensare a canali come Arte, Toute L'Histoire o RaiStoria, e a livello svizzero a Histoire Vivante della RTSR e al Filo della Storia, trasmissione scomparsa della TSI. Come scrisse lo storico Marc Bloch "non credo ci sia lode migliore (...) che di saper parlare, con il medesimo tono, ai dotti e agli scolari. Ma una semplicità tanto elevata è privilegio di alcuni rari eletti".
 
Oggi la tecnologia permette di fare viaggi virtuali. La Storia e la documentazione storica si prestano molto bene per ricreare delle situazioni, ma pure per creare illusioni. La Storia di un luogo oggi può prendere così altre dimensioni, si trasforma in uno spettacolo, in operazioni di marketing e di immagine per media e animatori. I tempi stretti obbligano a prendere scorciatoie. E il bisogno di comunicare a tutti può portare a semplificare. Col rischio di deformare invece di informare. Un esempio su tutti è, per semplificare e facilitare la comprensione, il voler continuamente chiamare Ticino le terre che oggi compongono il Canton Ticino allorquando ad esempio fra il 400 d.C  e il 1803 appartenevano o si identificavano a tutt'altre realtà e identità. Terre ticinesi solo grazie a Napoleone. Dicasi lo stesso per la Svizzera. Una realtà dal 1848.
 
È dunque essenziale, anche nella divulgazione televisiva di massa, sempre "distinguere la Storia - propriamente detta, che è un insieme di fatti accaduti - dalla storiografia, che è un insieme di forme di scrittura e interpretazione di quei fatti. Per loro natura la Storia è oggettiva mentre la storiografia è soggettiva, dal momento che di uno stesso fatto si possono dare diverse interpretazioni." E occorre pure fare attenzione alle ricostruzioni date per certe, ma in realtà basate soprattutto su ipotesi, probabilità, interpretazioni o fonti storiche non sufficientemente comprovate. Perché poi nell'immaginario collettivo è spesso solo questo che resta.
 
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28 novembre 2024

Da un Grand Hôtel a un grande vuoto?

Esattamente 101 anni dopo lo storico incontro, la sede del “Patto di Locarno” riaprirà i battenti grazie ad una lodevole iniziativa privata. Per una decina d’anni il destino del Grand Hôtel sembrava segnato. Il dibattito sulla sua possibile demolizione non fu mai veramente ampio: quando furono sollecitati dai media, politici e intellettuali locali non brillarono per le loro prese di posizione a favore della storica struttura. Le proposte concrete di acquisto e recupero furono invece più numerose ma non ebbero esito positivo.

Mantenere e ristrutturare un edificio come il Grand Hôtel di Locarno necessita indubbiamente importanti investimenti. Eppure quest’albergo li merita perché è un importante componente della nostra memoria storica e culturale. Stupiva perciò l’assenza di vero interesse e di un dibattito sul Grand Hôtel quale simbolo del deturpato Ticino urbanistico di oggi*. Come stupiva che Consiglieri di Stato, personaggi di spicco del mondo culturale e turistico e architetti di fama mondiale non fossero riusciti a convincere potenziali interessati ad investire i milioni necessari alla realizzazione ex-novo di un Museo dell’Architettura in quella prestigiosa sede (un museo che un giorno avrebbe potuto ospitare una rassegna sui … Palaces ticinesi che furono). Stupiva quindi che non si trovassero fondi pubblici e privati, forze politiche e umane per salvare un pezzo, questo ed altri, di quel Museo di architettura che già oggi esiste sul territorio a costo zero e che, come lo dimostrarono certi itinerari architettonici che proponeva l’allora Ente Ticinese per il Turismo, non ha bisogno di un museo per farsi apprezzare dal pubblico.

La struttura non è diventata un Palacinema e nemmeno un Museo del Cinema. Se fosse scomparsa forse avrebbe fatto posto a moderne e tutto sommato banali e uniformate strutture di cemento e vetro con appartamenti di lusso per pochi ma facoltosi, di cui il Ticino è ormai pieno. Questo è il destino che è toccato ad esempio a Villa Branca e alla Romantica a Melide. Un destino ormai comune in tutto il Cantone fin dagli anni ’50, che ha profondamente trasformato e stravolto la nostra terra e ha eliminato molte delle sue più belle testimonianze architettoniche

*Secondo lo scrittore Renato Martinoni in “La cultura nel Locarnese fra Otto e Novecento” nel Locarnese prevale una cultura provinciale, locale, strapaesana, intellettualmente chiusa, incapace di far tesoro degli stimoli che giungono dall’esterno”.

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27 novembre 2024

Mémoires du Grand Hôtel Locarno

Ci sono luoghi che attirano per la loro bellezza. E il Locarnese di metà Ottocento era uno di quelli. Per poter permettere a chi voleva scoprire, apprezzare e godere il territorio furono costruiti grandi alberghi, spesso molto lussuosi ed elitari, che contribuirono con la loro architettura e i loro parchi lussureggianti a renderli ancora più belli. Il Grand Hôtel Locarno, progettato da Francesco Galli e Luigi Fontana, dal 1876 al 2005 è stato uno di quelli.

Primo Palace e primo luogo con glamour internazionale del Ticino, ha accolto fra le sue mura, nelle sue grotte e nel suo parco nobiltà europee, politici svizzeri e internazionali, attrici, attori e registi di gran fama, molti turisti e molti locarnesi. E pure la Dietrich in un monacale silenzio. A partire dal 1876 ha fatto entrare il Ticino nella modernità, nel 1925 ha ospitato la Conferenza della pace, detta del “Patto di Locarno”, nel 1946 ha dato i natali al Festival internazionale del film e lo ha ospitato fino al trasferimento delle proiezioni in Piazza Grande nel 1970. L’albergo divenne poi soprattutto un luogo di incontri privilegiati fra artisti e pubblico nel parco e nei lussuosi saloni, dove si svolgevano pure feste memorabili durante tutto l’anno.

Per ben 16 anni la struttura fu però lasciata degradare e l’incuria dilagò. Nell’apparente indifferenza delle autorità cantonali e comunali, dei vertici del Festival del film, degli enti turistici, dei proprietari e dei cittadini. Facciate scrostate e fatiscenti, strutture in rovina, oggetti deturpati, mutilati o derubati, giardino inselvatichito, sporcizia e rifiuti ovunque. Per non parlare dei topi. Nonostante vari progetti di vendita, di demolizione (!), di rilancio nulla si mosse fino ai lavori di ristrutturazione iniziati nel 2023. La struttura diventò sempre più fatiscente e ha rappresentato un pessimo biglietto da visita per il Locarnese e per chi arrivava in stazione. Ma continuava a rappresentare un notevole potenziale economico, e soprattutto una testimonianza storica unica.

Pur trattandosi di una proprietà privata, resta una struttura ad uso pubblico che appartiene a tutta una regione e alla sua memoria collettiva. Infatti il Grand Hôtel non è una struttura qualunque: è parte integrante della Storia del Ticino, è stato all’origine di tutto il nostro turismo, è un luogo della memoria per eccellenza dove pure migliaia di locarnesi e ticinesi hanno vissuto esperienze di vita. Testimone di 150 anni di Storia ticinese, svizzera e internazionale. Mentre il suo parco subtropicale, anche se ormai ridotto all’osso, resta un importante polmone verde per la città. Ma soprattutto, nonostante il glamour, non è mai stato un luogo unicamente elitario: ha infatti sempre saputo essere un attore della vita dei Locarnesi e anima di molte loro storie personali. Non è un albergo, è un’istituzione! La sua posizione e gli spazi sono unici, hanno affascinato ma anche fatto gola. Durante i 16 anni di abbandono era quasi tabu parlarne, anche se c’era chi non nascondeva le sue smanie di rovinare quello spazio con un ennesimo resort di lusso di vetro e cemento.

Meritava di diventare IL Palacinema, realizzato poi altrove in città, con annesso un museo del cinema, oppure un Museo del Territorio, che arriverà però nell’ex convento di Santa Caterina, un museo dell’architettura, un centro culturale, un museo del turismo, insomma una struttura che valorizzasse il Ticino e desse onore e fierezza ai suoi abitanti, e non solo vergogna. Il caso volle che nel 2003, proprio il giorno dell’annuncio della possibile demolizione del Grand Hôtel, Governo cantonale e vip locali si recassero a San Pietroburgo per commemorare l’architetto Domenico Trezzini (1670-1734) di Astano e per complimentarsi con quella città per le sue capacità nel valorizzare il passato. Mentre in Patria si lasciava demolire “la terra d’artisti”, ma non quella delle artiste allora assai numerose in Ticino. Nel 2025 si ricorderanno i 100 anni del Patto di Locarno e i 150 anni dell’albergo, e nel 2026 gli 80 anni del Festival del film. Il buon senso vorrebbe che proprietari, operatori economici, culturali e turistici, così come le autorità di Muralto, Locarno e cantonali si adoperino in modo sinergico affinché quel luogo storico possa essere e diventare uno degli strumenti di promozione e valorizzazione di quegli eventi e di tutta la regione. Affaire à suivre.

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26 novembre 2024

1925: l’Esprit de Locarno

 

Durante la Grande Guerra (1914-1918) la Svizzera visse una neutralità difficile, la sua unità fu messa a dura prova e l’approvvigionamento si dimostrò arduo. La situazione sociale divenne tesa e si arrivò allo sciopero generale del 1918, duramente represso dall’esercito in particolare a Ginevra. Ma dalla sconfitta nacque il socialismo di Stato. Nel 1920 la Svizzera entrò nella Società delle Nazioni, che marcò il tramonto definitivo dei grandi imperi russo, turco e tedesco. Il trattato di Versailles del 1919 scontentò però tutti e umiliò la Germania.

 

E fu allora, nell’ottobre del 1925, che Locarno entrò nella Storia mondiale contemporanea. Per dieci giorni, dal 5 al 16 ottobre, ospitò i potenti dell’epoca, fra cui il britannico Austen Chamberlain, il tedesco Gustav Stresemann, il francese Aristide Briand e il dittatore fascista italiano Benito Mussolini, riuniti per firmare un Patto che avrebbe dovuto scongiurare una nuova guerra grazie al riconoscimento e alla conferma di frontiere definite lungo il Reno fra la Germania e i suoi vicini. Il “Patto di Locarno” entrò in vigore nel 1926, quando la Germania fu accolta in seno alla Società delle Nazioni (SDN): fu l’inizio di un breve, ma intenso periodo di distensione e di collaborazione. Ma “l’Esprit de Locarno” servì solo a consolidare una pace effimera. Il Patto fu denunciato da Hitler il 7 marzo 1936 con l’occupazione militare della Renania, in un clima internazionale totalmente mutato e degradato.

 

Dopo Locarno iniziarono gli anni della riconciliazione con la Germania (1925-1929): si passò da una politica caratterizzata da una pace imposta a Versailles, che conteneva in germe la Seconda Guerra mondiale, ad un accordo comune ed a un dialogo pacifico. Fu un incontro che suscitò molte speranze, poi disilluse, e che ebbe pure una grande eco a livello mondiale. Locarno divenne un Begriff, un brand, un importante marchio. Celebri Dancing Halls e Ballrooms a Londra, Glasgow, Aberdeen, Liverpool, ecc., stabilimenti balneari a Vancouver (Locarno Beach) portarono il suo nome, come pure alberghi, ristoranti, caseggiati, vie inglesi, tedesche, francesi e neozelandesi. Anche senza particolari operazioni di marketing e molta teoria, l’immagine di Locarno circolò nel mondo. E in Ticino “l’Esprit de Locarno” servì pure a creare le prime Ticinelle, false figure folcloriche locali.

 

Durante gli anni ’20 del ’900 i rapporti fra la Germania di Weimar e il nostro Paese furono ottimi grazie anche agli sforzi di Giuseppe Motta (1871-1940), ministro svizzero degli esteri. Con l’Italia la situazione fu più complessa. Le affinità linguistiche e culturali, ma non solo, di Motta con l’Italia erano evidenti: egli fu spesso rimproverato di eccessiva tolleranza nei riguardi del regime fascista, senza esserne stato un aperto sostenitore. Per Motta il Ticino era, citiamo, “schiettamente italico nel volto, nel costume, nella favella e nella tradizione morale”, ma la sua appartenenza alla Confederazione non fu mai veramente messa in discussione. 

 

Durante quegli “anni ruggenti” Giuseppe Cattori (1866-1932), Consigliere di Stato, e Giuseppe Motta, Consigliere federale, furono i principali esponenti della destra conservatrice ticinese. Cattori pose le basi del “Governo di Paese” incentrate sull’intesa tra conservatori e socialisti, rappresentati da Guglielmo Canevascini (1886-1965). Vi era poi la questione ticinese: l’irredentismo difendeva l’italianità del Ticino e combatteva l’influenza svizzero tedesca, mentre la presenza di numerosi italiani che fuggivano il regime contribuì al delinearsi di un forte movimento antifascista, le cui attività diedero adito a numerose lamentele da parte di Roma. Lo scopo dei perseguitati politici non fu la ricerca della libertà ma di un luogo dove poter svolgere e continuare la lotta antifascista. Come fecero a partire dal 1967 i Palestinesi in Libano contro Israele. Molti entrarono in Ticino seguendo i sentieri dei contrabbandieri della Valle Morobbia. Altri si installarono nel Mendrisiotto e nel Luganese, dove si ritrovavano al Ristorante Morenzoni di Loreto e alla sede di Libera Stampa.

 

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25 novembre 2024

Dal Patto di Locarno del 1925 al Vertice di Ginevra del 1985

 

Il vertice di Ginevra del 2021 fra il presidente americano Joe Biden e il suo omologo russo Vladimir Putin è stato l’ultimo fra le Grandi potenze prima dell’invasione russa dell’Ucraina il 24 febbraio 2022. Una data che ha fatto ritornare il mondo al pericoloso periodo della “Guerra fredda”. Invece il vertice svoltosi a Ginevra nel 1985, ben 40 anni fa, fra i presidenti Ronald Reagan e Michail Gorbaciov, gettò le basi per la fine della “Guerra fredda”. Allora c’erano ancora l’Unione sovietica, la “Cortina di ferro” e il muro di Berlino.

 

Quali incontri hanno preceduto il vertice del 2021? Furono quelli del 1925, 1938, 1945 e 1985: lo stesso secolo eppure quattro mondi totalmente differenti. In sessant’anni la configurazione geopolitica mondiale è stata completamente stravolta. Dalle ceneri della Prima Guerra mondiale nel 1920 nasce la Società delle Nazioni (SDN), propugnata dal Presidente americano Thomas Woodrow Wilson (1856-1924), alla quale però non aderiscono gli USA e la Germania. Il periodo che va dal 1919 al 1925 è economicamente e politicamente assai difficile ed è caratterizzato dalla volontà francese di porre Berlino nell’impossibilità di iniziare un nuovo conflitto. A Locarno si vogliono però porre i rapporti franco-tedeschi sotto il segno della riconciliazione e si nota un chiaro mutamento del posto riservato in Europa alla Germania, che passa dalla condizione di Paese vinto a quella di pari tra i pari. La Conferenza di Locarno ha luogo nell’ottobre del 1925 e riunisce i rappresentanti di Germania (Stresemann), Gran Bretagna (Chamberlain). Belgio (Vandervolde), Francia (Briand), Italia (Mussolini), Polonia (Skrzynski) e Cecoslovacchia (Benes). Secondo gli accordi siglati a Locarno e firmati a Londra nel dicembre dello stesso anno, la Germania, la Francia e il Belgio s’impegnano al mantenimento dello status quo territoriale, delle frontiere occidentali della Germania definite a Versailles e al rispetto dello statuto della Renania smilitarizzata. Il Patto è garantito da Roma e da Londra. Vengono inoltre conclusi trattati d’arbitraggio fra la Repubblica di Weimar (1919-1933) e i suoi vicini ad Est presenti alla Conferenza, coi quali essi si impegnano a risolvere pacificamente eventuali controversie. La Germania entra poi nel 1926 nella SDN. La riconciliazione è reale, ma facendo scartare dagli accordi il mantenimento delle frontiere orientali della Germania fissate nel 1919, Berlino fa implicitamente ammettere il principio della revisione del Trattato di Versailles. Come quest’ultimo, Locarno contiene purtroppo in germe una delle cause del secondo conflitto mondiale, e cioè le mire imperialistiche tedesche verso Est, che Hitler poi considerò come lo spazio vitale del terzo Reich (invasione e occupazione di Austria nel 1938, Cecoslovacchia e Polonia nel 1939, Unione sovietica nel 1941). Queste mire erano alla base della guerra 1914- 1918 e non sono mai state abbandonate da una parte della classe dirigente tedesca, ovvero politici e industriali che non hanno accettato la Repubblica di Weimar e che, pur non identificandosi col nazismo, a partire dal 1933 sostennero la politica hitleriana soprattutto in chiave anti sovietica e anti bolscevica.

 

Nel 1925 sotto le palme locarnesi il centro del mondo è dunque ancora l’Europa. Le grandi potenze sono Francia, Gran Bretagna e USA. Quest’ultimi, ridiventati “neutrali”, lasciano però campo libero in Europa ai loro alleati. Malgrado la loro partecipazione al confitto, gli USA e la Russia (diventata nel frattempo sovietica) sono i grandi assenti di Locarno. Ma ciò non impedì loro di operare dietro le quinte. L’Europa, grazie anche alle sue numerose colonie nei cinque continenti, può ancora decidere le sorti della politica mondiale.

 

Nel 1938 invece lo spirito di Locarno, che si voleva promotore di un lungo periodo di pace e di collaborazione internazionale, non esiste più de tempo. Nel 1936 Adolf Hitler denuncia gli accordi firmati da Stresemann a Locarno e occupa militarmente la Renania. Ma la stabilizzazione vacilla già agli inizi degli anni ’30 sotto i colpi della crisi economica, con l’arrivo al potere di Hitler e con l’avanzata delle destre nazionaliste in quasi tutti i Paesi europei. Lo spirito di Locarno dimostra pertanto quasi subito tutta la sua fragilità. E fallisce miseramente con gli Accordi di Monaco del 1938: passiva e colpevole accettazione europea dell’annessione dei Sudeti prima e dell’occupazione della Cecoslovacchia poi da parte del Reich tedesco. Paese spartito nel 1939 fra Germania e Ungheria e con la creazione dello Stato vassallo della Slovacchia. Mentre si assiste all’emergenza di grandi potenze quali Giappone, USA e URSS, il Reich e i suoi alleati europei nel 1942 dominano con la violenza quasi tutto l’Occidente.

 

Con l’Europa in rovina, nel 1945 dopo la Conferenza di Yalta risulta palese che i veri vincitori del conflitto sono le due potenze extraeuropee, gli USA e l’URSS, che in Crimea si dividono il mondo in zone d’influenza. A ritmo di “In the Mood” di Glenn Miller sembra però rinascere lo spirito di Locarno come espressione di una volontà di cooperazione pacifica fra gli Stati. Il nuovo equilibrio europeo e mondiale, impossibile nel 1919, si realizza solo dopo il 1945 con la creazione dell’Organizzazione delle Nazioni Unite (ONU), in un mondo però diviso in due e ormai dominato dalle regole e dalle logiche della “Guerra fredda”.

 

Nel 1985 la pace si basa perciò da quarant’anni essenzialmente sulla paura nucleare. Mosca e Washington si contendono il pianeta. L’Europa, divisa dalla “Cortina di ferro”, è diventata una zona d’influenza delle due superpotenze. Il destino del mondo non è più nelle sue mani e non ha più voce in capitolo. Se non come vassallo americano o sovietico. L’Europa si risveglia però in occasione del vertice di Ginevra del 1985. In tutto il continente riecheggia uno stesso slogan, ovvero “Reagan, Gorbaciov, il mondo non vi appartiene.” Due uomini si incontrano a Ginevra e decidono se vi sarà pace o guerra. Due uomini, due servi di uno stesso padrone, ovvero la minaccia nucleare, il cui obiettivo sarà di evitare che le loro rivalità si trasformino in uno scontro aperto.

 

Anche se la storiografia ufficiale tende piuttosto a trascurarlo, il Patto di Locarno non è dunque stato un avvenimento isolato nel tempo, bensì l’inizio di un rapporto nuovo fra gli Stati. Un rapporto in cui vige essenzialmente il dialogo a favore della pace, che in teoria dovrebbe ancora essere quello attuale. L’ordine europeo scaturito dopo il 1919 era debole e precario e per stabilizzarsi aveva purtroppo bisogno di una nuova guerra, ma pure del nuovo spirito diplomatico nato a Locarno. Concretamente, il Patto del 1925 non ha marcato l’inizio di un mondo nuovo. Ma sulle rive del Lago Maggiore è iniziata la volontà di cercare la pace tramite il dialogo, ricerca che costituisce pur sempre l’obiettivo primario dell’attuale politica internazionale.

 

A questo punto ci si può chiedere a cosa servano le conferenze sulla pace, le quali sono spesso osservate in modo critico e ritenute poco concludenti dall’opinione pubblica. Qual è l’obiettivo fondamentale di tutti questi vertici? Da Locarno 25 a Ginevra 85 abbiamo assistito al ristabilimento della volontà di dialogo fra gli Stati. Questo fatto è senz’altro importante anche se spesso i risultati sono stati deludenti. Ma finché c’è dialogo c’è speranza. Il dialogo è dunque un fragile ma pur sempre concreto elemento di un vasto processo dinamico che dovrebbe poter condurre l’umanità ad una pace vera. Ed ogni nuovo incontro fra rappresentanti di Stati rivali deve innanzitutto essere visto come un nuovo tentativo di riordinare i rapporti internazionali nel senso di una maggiore stabilità e, indipendentemente dalle incomprensioni reciproche, di creare le condizioni per conoscersi e rispettarsi.

 

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